Jorge Valdano non ha bisogno di presentazioni. E' una delle figure di maggiore intelligenza che abbiano mai fatto capolino nell'universo del football, che ha esplorato in tutte le sue dimensioni (da calciatore e allenatore di vertice, dirigente, analista, commentatore). Smise di giocare nella primavera del 1987, a trentadue anni non ancora compiuti, per una brutta malattia. Valdano, si sa, scrive. Scrive di calcio come pochi, oggi, sanno fare. Su "El País", il 30 settembre 1987, giorno di Napoli - Real Madrid, comparve un suo 'articolo' dedicato al Buitre e al Pibe, attesi protagonisti della serata.
Appartengono alla
medesima generazione e sono cresciuti separati dallo stesso oceano;
li ha separati ancor più l'ingiustizia dei natali, ma li unisce
eternamente l'invisibile pallonata della passione calcistica. Non li
comparo né li equiparo: semplicemente, li associo a un'idea nitida
di intendere il calcio e a una maniera magica di praticarlo.
Attraggono trascinanti entusiasmi collettivi da proporzioni distinte,
amministrano dollari a milioni, si accaparrano tutti i titoli
giornalistici e continuano a intristirsi quando non giocano bene.
Nulla ha obbligato Butragueño a essere pícaro. È stato
avvantaggiato sin dal principio, ma non si è mai rifugiato nella
bambagia. Ha conosciuto il calcio durante l'ora della ricreazione nel
cortile di un'esclusiva scuola elementare del centro di Madrid, e il
suo talento ha rapidamente risolto i problemi derivanti dalla
mancanza di spazio per sovrabbondanza di gambe. Da quel momento non
ha bisogno di spazio, lo inventa: trenta centimetri di luce gli bastano
per applicare quel suo senso esatto e seducente della pausa e
dell'accelerazione. Riceve di spalle e – oplà – è già di
fronte. L'area di rigore è il suo feudo, nel quale esibisce il suo
sublime marchio quando, circondato da nerborute gambe carnivore, cede
la sfera e abbassa le braccia, come per arrendersi. Non credetegli. In
realtà non si arrende: ciò che questo incorreggibile
incantaserpenti sta conducendo è una rapida seduta di ipnosi e,
quando gli avversari sono ammansiti, si riaccende e ingrana la quinta
marcia, per ricomparire, sano e salvo, nell'unico spazio in cui
misteriosamente non c'è nessuno. Se è fortunato, la giocata termina
con un gol, ma di un altro, perché lui, come Ricardo Bochini, di
queste volgarità pare non volersi occupare.
Nel quartiere dov'è
nato Maradona i genitori montano sull'autobus alle sei di mattina e
ne scendono alle dieci di sera, perché essere onesto richiede tempo
e fatica. Ragazzi scalzi che giocano a calcio in campetti gibbosi
vedono nel pallone il simbolo che li distrae dalle disgrazie del
presente e promette loro una futura via di fuga.
In quella fucina di
talento, Diego ha unito la tecnica alla propria immaginazione ("non
v'è genio senza tecnica", affermava Pablo Picasso) e sin da
fanciullo cominciò a mostrare meraviglie. È differente perché fa
tutto bene e lo rende bello, ed è inspiegabile perché non risponde
ad alcun calcolo. Qualsiasi angolo del campo pare la sua collocazione
naturale; la sua gamba sinistra corregge il movimento nell'ultima
frazione di secondo; quando pare frenare, scatta e quando pare
scattare, frena. Nei campi da gioco sfida le leggi dell'equilibrio,
nel mondo regala felicità. Essere suo compagno di squadra è
pericoloso, perché la sua magia ti fa dimenticare di essere
protagonista e ti converte in uno spettatore. Ti lascia persino
un'espressione inebetita.
Mi ricordano il
tango, perché sono due pibes millenarî che a volte giocano
goccia a goccia, altre volte a fiotti, ma pur sempre ricorrendo a
nobili arti per riscattare il calcio dalla mediocrità.
Nella partita
Real-Napoli nessuno dei due è riuscito a brillare. Si sono
incrociati dopo la partita in un ristorante madrileno e si sono
salutati timidamente. Non importa che la vita abbia costretto Diego a
partire da dietro e abbia riservato al Buitre la pole position.
Entrambi erano ugualmente tristi, entrambi afflitti dal medesimo
vuoto che corrisponde all'orgoglio. Oggi, al San Paolo, due geni
dall'orgoglio ferito avranno la loro seconda opportunità. Può
succedere di tutto. Se al termine dell'incontro rideranno, sarà
perché tutti noi ci saremo divertiti.
"El País", 30 settembre 1987 (Traduzione italiana a cura del Duca)